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Non chiamatelo vegano

Sembra carne ma non è.

Spesso gli alimenti vegan conservano una radice carnivora nel loro nome: “Cotoletta di seitan”, “hamburger di soia”, “bistecca veggie”.

Mi è venuta voglia di scrivere questo pezzo dopo l’ennesima discussione, avuta questa volta con un amico, in merito ai formaggi vegani.

Perché chiamarli formaggi, mi dice lui, se formaggi non sono?

La mia risposta in questi casi è sempre: per praticità, così si capisce subito di che tipo di alimento si stratta, e per convenzione.

Nel caso dei formaggi ci viene in aiuto anche l’etimologia: la parola “formaggio” deriva da “formos”, termine usato per indicare il paniere di vimini dove veniva depositato il latte cagliato per dargli forma. Il “formos” divenne poi la “forma” dei romani, quindi il “fromage” dei francesi, per arrivare all’italiano “formaggio”.

Di fatto la parola riguarda la forma dell’alimento. Poi per convenzione sappiamo che l’alimento di quella forma è fatto di latticini. Quindi niente di più semplice che chiamare formaggio un qualsiasi prodotto di quella forma specificando di cosa è fatto, se non si tratta dei solitamente sottintesi latticini.

Se preparo una pasta e la condisco con una crema di tofu e pepe, chiamarla cacio e pepe vegana mi serve per dare immediatamente l’idea del gusto e della consistenza del condimento. Nient’altro.

Con argomentazioni di questo tipo si potrebbe anche uscire ‘vincenti’ dalle discussioni, ma cosa c’è veramente dietro a una polemica apparentemente sterile come questa?

Per cominciare c’è qualcosa che ha a che fare con le ‘fazioni’ e che alimenta la ‘guerra’ tra onnivori e vegani.

Gli onnivori difendono, anche giustamente, l’identità dei loro piatti, e in fondo accusano i vegani che dare ai piatti vegetali i nomi dei piatti di carne corrispondenti o simili nasconde sotto sotto il rimpianto di qualcosa che non si può più avere e che quindi si sostituisce con un surrogato.

Poi c’è un discorso di marketing.

Le aziende, tutte le aziende ormai, producono prodotti surrogati a cui danno i nomi tradizionali dei piatti animali originari, spesso con claim pubblicitari terrificanti: il burger vegano che profuma di carne (ad esempio).

Qui il discorso si fa più complesso.

Se non è stato fatto un percorso interiore profondo si resta dei nostalgici della carne.

Quelli che hanno fatto una scelta a malincuore, per ragioni non supportate da un convincimento reale, non riescono mentalmente a sostituire ciò a cui rinunciano con qualcosa che non ne sia un surrogato.

Poi ci sono quelli come me.

Io non consumo molti surrogati, ma il grana, il prosciutto cotto e il ragù di mia mamma mi mancano eccome.

Semplicemente ho deciso, con profonda convinzione, che il piacere del mio palato non è una ragione sufficiente a giustificare le torture cui sono sottoposte creature innocenti e la loro uccisione.

Cosa c’è di sbagliato in questo?

Dall’altra parte se un’azienda che, ad esempio, commercia wurstel, fiutando l’affare, a un certo punto comincia a produrre e distribuire anche ‘wurstel vegani’ ha senso comperarli?

Anche sì, se con questo acquisto posso contribuire a ridurre il consumo di carne e a rendere forte una richiesta di mercato alternativa.

Il problema da superare però è un altro.

Secondo Julia Minson dell’ Università di Pennsylvania e Benoît Monin, Università di Stanford, (Social Psychological and Personality Science, Bd. 3, S. 200, 2012) i carnivori avrebbero spesso la sensazione che i vegetariani li giudichino moralmente riprovevoli e si sentirebbero così delle cattive persone.

Le persone tenderebbero a difendersi dagli attacchi a una positiva immagine del sé, mettendo in ridicolo gli aggressori.

Questo avviene quasi sempre, anche senza alcuna provocazione. La difesa preventiva, da un giudizio che si percepisce come sottinteso anche quando non espresso, spesso diventa aggressiva. A me è capitato diverse volte.

D’altra parte di vegani arroganti, giudicanti e aggressivi è pieno il mondo.

Che sono poi quelli che si espongono più volentieri, nel web ad esempio, e che hanno contribuito a diffondere quest’aurea di antipatia o quantomeno di diffidenza attorno a chiunque abbia fatto questa scelta.

Se siamo davvero convinti che un certo stile di vita possa fare la differenza, è importante essere concilianti e rispettosi. Non convinceremo mai nessuno facendo gli arroganti e credendoci superiori! Un vegetariano o un vegano antipatico è il peggior esempio possibile!

Ma torniamo ai piatti e ai loro nomi.

Perché i vegani mangiano alimenti simili di forma a quelli che mangiavano da onnivori contenenti la carne?

Tendenzialmente per comodità.

Abbiamo anche noi un lavoro, una vita piena di impegni che spesso ci porta a mangiare alimenti già pronti da cuocere e basta.

Come gli animali vengono affettati e trasformati in altri cibi, anche i nostri vegetali possono subire lo stesso procedimento. E se un cibo è affettato, è affettato, che sia maiale o mopur. Quale altro nome gli dovremmo dare?

Perché rivisitare le ricette tradizionali in chiave vegan e mantenere lo stesso nome?

Ancora una volta per comodità e sì, anche per nostalgia. Ma non per nostalgia della carne.

Siamo tutti figli delle stesse tradizioni culinarie e quando mettiamo insieme gli avanzi, che siano di carne o di legumi, in una palla da cuocere in forno o da friggere in padella, quella palla la chiamiamo polpetta.

Mia mamma metteva il ragù sul fuoco la domenica mattina alle 8.00 per farlo cuocere qualche ora e ricordo che quell’odore intenso di soffritto e carne che sfrigolava mi prendeva la testa… mi alzavo intontita e bevevo il caffè in una cucina tutta invasa di aroma di ragù.

Il ragù è un piatto a cui non voglio rinunciare, non perchè viva come privazione il fatto di aver scelto di non mangiarlo, ma perchè è uno di quei sapori che appartengono alla mia infanzia e al ricordo della mia mamma.

Che problema c’è se il macinato che uso per farlo è di seitan, anzichè di carne?

Nessuno ha mai protestato di fronte un’”insalata” di pollo o di mare… o no? (cit.)

In definitiva io credo che non sia importante il nome che diamo ai piatti.

Più importante è portare sempre in tavola la tolleranza, il rispetto altrui e la sospensione del giudizio.

Quanto agli ingredienti.

E’ importante fare attenzione alla qualità e alla provenienza di ciò che si mangia e non cedere troppo alle lusinghe e alla comodità dei prodotti trasformati e industriali, che siano di carne o no.

Infine. L’unico ingrediente irrinunciabile è l’amore: quello che mettete nel preparare le vostre pietanze per voi e per i vostri cari, come facevano le nostre mamme, in qualunque modo le chiamiate. Carne o non  carne.

 

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